Da "Libero" 11/09/2001 |
Secondo gli avvocati la vivisezione a scopi didattici va contro le norme vigenti. E anche il ministero è colpevole
Fuori legge le università che torturano animali di Simona Bertuzzi Milano In Italia gli animali vengono uccisi nelle Università per scopi didattici. Lo consente una legge, la 116 del 92, e quindi i margini di manovra sarebbero pochi. Ma attenzione: la legge, secondo Francesca Cassini, avvocato e consulente giuridico del Comitato antivivisezione che ha studiato mille volte la legislazione, è male interpretata. Dallarticolo 3, che elenca tutti i casi in cui è possibile utilizzare gli animali, è esclusa la didattica, salvo inderogabili necessità (che unaltra legge del 93 ha dimostrato non esserci). E quindi i 38 atenei che praticano la vivisezione, con lautorizzazione ministeriale, sono fuori legge. Anche il ministero è inadempiente: concede autorizzazioni sulla base di un articolo di legge abrogato di Simona Bertuzzi Milano Ogni anno, in Italia, quindicimila animali vengono uccisi a scopo didattico. Fino a ieri, avremmo detto che muoiono ingiustamente. Oggi, sappiamo che muoiono perché la legge è male interpretata. Sia dal Ministero della Sanità che autorizza le sperimentazioni. Sia dalle 38 università italiane che le praticano, in base a quellautorizzazione. Francesca Casssini, avvocato e consulente giuridico del Comitato nazionale antivivisezione, ha studiato mille volte la legislazione. E dopo dieci anni di battaglie contro chi contravviene sistematicamente alle sue disposizioni, chiede di prendere la parola. LA STORIA Confesso: ne ho uccisi più di mille di Mattias Mainiero Sono colpevole. Sulla coscienza ho un migliaio di omicidi. E la legge non può farmi nulla. Venticinque anni fa, o forse più. Me lo ricordo ancora. Li prendevo per la coda e li appoggiavo sul ripiano del bancone. Uno, due, tre volte al giorno. Sempre la stessa storia. Durava in tutto pochi minuti. Incredibile: avrebbero potuto girarsi, tentare di scappare lateralmente, restarsene immobili. Invece no. Appena sul bancone, si proiettavano in avanti, per istinto naturale, per sfuggire, per liberarsi dalla presa. E in quel terribile sforzo quasi si inarcavano e mostravano il collo. Il più era già fatto. Un paio di forbici appoggiate alla base del cranio, una pressione lieve, quasi impercettibile, uno strattone (&&) deciso. E neppure uno squittio. "Fai così", mi dissero appena entrato, "la morte dei topini è indolore". Feci così, per più di un anno, ferie estive comprese. Un eccidio. Inutile. E ora lo so. Laboratorio di Patologia generale, università di Napoli. Da quelle parti cera anche un professore, il professor Puca. Un suo omonimo o parente oggi potrebbe ricevere il premio Nobel per gli studi sulla vecchiaia e il gene della longevità. Ma questa è unaltra storia, e con i topini non centra. Il laboratorio era moderno, efficiente. Cera anche una cella frigorifera, una stanza degli orrori sotto zero piena zeppa di pezzi di animali, mammelle, fegati, pancreas, polmoni. Si parlava in napoletano e in inglese, perché la ricerca, anche allora, era targata Stati Uniti e perché eravamo nel cuore della Napoli antica e migliore, la Napoli che collaborava con gli USA. La ricerca era quella sui recettori ormonali a livello mammario. Roba complicata: si trattava di stabilire se, in caso di tumore, il meccanismo che permette ad un ormone di raggiungere il tessuto della mammella e di esplicare la sua azione fosse alterato, o qualcosa del genere. Così, si prendevano i topini, bianchi, anzi le topine, si dava un colpetto di forbice, si tirava fuori la mammella e si cominciavano gli esperimenti. Si lavorava in pool, una squadra affiatata. Cerano gli addetti agli omicidi, il giovane delle pulizie, quello della centrifuga, il supervisore, il professore. Le topine reano nel seminterrato, in piccole gabbie. Ogni mattina si apriva una gabbia e se ne facevano fuori due o tre. Per gli esperimenti si andava ai piani più alti. Lo stanzone era grande. Addossati alle pareti, i banconi, un lavabo, una cappa per i fumi nocivi. Anche una parete libera, ricoperta da mattonelle bianche. Un giorno, era dottobre, sul bianco apparve una gran macchia rossa. L'abituale procedura di uccisione delle topine aveva subito una variazione sul tema. Uno studente ne aveva liquidate tre roteandole in aria e spiaccicandole sulla parete. Pare che il giorno prima fosse stato bocciato ad un esame. Andò avanti per mesi e mesi. Omicidi, prelievi, centrifughe, numeri. Si sa comè fatta la ricerca. Sembra sempre di brancolare nel buio. Poi, improvvisamente, una luce. Ma la luce non venne. Dalle provette uscivano numeri oscuri. Ora sembravano dire una cosa, ora unaltra. E le topine morivano per confermare o smentire che non parlavano. Morivano per dare una voce alla ricerca. Morivano a raffica e la luce continuò a non venire. Fu per questo, anche per questo, che cominciammo con le mammelle delle vacche. Napoli-Castellammare di Stabia, il giovedì. Si andava al mattatoio e appena la vacca si afflosciava sulle gambe anteriori colpita da un proiettile in piena fronte, entrava in azione il bisturi. La mammella veniva staccata dal torace, finiva in una specie di thermos e dal mattatoio raggiungeva di corsa listituto. In centinaia e centinaia di laboratori, a Napoli e in tutta Italia, si faceva e si fa così. Perché non puoi usare le mammelle umane. Perché i topini non costano troppo. Perché le mammelle delle vacche sono facili da reperire. Il laboratorio divenne una specie di macelleria. E rimase il buio. Anche le vacche non riuscirono ad illuminare la ricerca. Quante vacche? Un inverno intero su e giù da Castellammare, in Vespa, un Vespone grigio, il thermos a tracolla, lungo lautostrada, un freddo che ancora si fa sentire. Che brutto inverno. Poi venne la primavera e con la primavera si cominciarono a tirare le somme. "Qualcosa non funziona", disse il professore. Tutti risposero: "Certo". "Deve esserci un errore", continuò il professore. Tutti risposero: "Cert". "Si ricomincia da zero", aggiunse il professore. Tutti risposero: "Certo". Quando il professore disse che senza risultati si perdevano i fondi (e lo disse in napoletano) e che in quel laboratorio cera qualche incompetente, nessuno se la sentì di rispondere "certo". Girammo le spalle e le topine se la videro brutta. Ricominciammo. Da due o tre cavie quotidiane si passò a quattro e anche a cinque. Invano. I numeri rimasero strampalati. Fino agli inizi di luglio. Fu allora che uno dei giovani studenti decise di andare in ferie. Era laddetto alla pulizia delle provette. Subentrò un altro giovane, e i numeri cominciarono a diventare più lineari, più concreti, più comprensibili. I topini erano migliori? Le vacche più efficienti? Che cosa stava succedendo? Lo capimmo dopo lestate, quando il primo giovane ritornò in laboratorio e ricominciò a pulire le provette a modo suo: senza sciacquarle, lasciandoci dentro residui di sapone. Per più di un anno ho ucciso migliaia di topi e prelevato decine e decine di mammelle di vacca, grandi, gigantesche. E qualche decimilligrammo di residuo di sapone lasciato nelle provette aveva reso quella strage inutile. "Tu mettile sul bancone", mi dissero, "tienile per la coda e poi strattona. La morte sarà rapida e indolore". Che" freddo quell'inverno. |